Quando nel cervello le cellule nervose cessano di rinnovarsi, i ricordi scivolano via. Un colloquio con il professor Nicolas Toni, del Centro di neuroscienze psichiatriche di Losanna, sulla sorprendente plasticità del nostro cervello. E sulla sua speranza di poterlo proteggere precocemente da alterazioni patologiche.
Gruppo di ricerca del professor Nicolas Toni,
Centro di neuroscienze psichiatriche di Losanna
Da giovane ricercatore, lei apparteneva a un gruppo di scienziati che riuscirono a dimostrare come il sistema neuronale si rinnovasse e modificasse attraverso la cosiddetta neurogenesi. Quale significato hanno avuto queste scoperte, per la ricerca?
La plasticità del cervello, vale a dire la sua facoltà di modificare la sua struttura e la sua funzione sulla base delle esperienze, costituisce la base del nostro comportamento e della nostra adattabilità cognitiva, per esempio quando impariamo una nuova lingua o a suonare uno strumento musicale. La scoperta della plasticità ha cambiato la nostra immagine del cervello: da organo definito e immutabile sino dalla nascita a una centrale di comando in grado di modificarsi costantemente e di adattarsi alle nuove esperienze. Per me è stato un onore poter contribuire anche solo con una goccia al mare di conoscenze che ha portato a questa scoperta. Non solo ha rappresentato una svolta fondamentale nella nostra comprensione della funzione del cervello, ma ha pure suscitato la speranza che tali meccanismi di plasticità possano essere stimolati per ripararlo.
Vi sono quindi delle possibilità di stimolare la neurogenesi per mantenere giovane il cervello?
Né le modifiche genetiche né gli interventi farmacologici per stimolare la neurogenesi sono oggi sufficientemente sviluppati per essere presi in considerazione per il trattamento delle patologie umane. Il mezzo più efficace per accrescere la neurogenesi è l’attività fisica. Nei topi, la corsa volontaria aumenta la formazione di nuove cellule nervose di circa il 100 percento e accresce le prestazioni mnemoniche, anche nei modelli murini della malattia di Alzheimer. Siccome è difficile tracciare la neurogenesi negli umani adulti, non sappiamo ancora se questo valga anche per noi. Numerosi studi condotti sull’uomo dimostrano tuttavia che l’attività fisica aumenta le capacità mnemoniche sia negli individui sani che nei pazienti affetti da Alzheimer. Essere attivi fisicamente, ma anche in ambito sociale e intellettuale, è lo stile di vita migliore che possiamo adottare per migliorare la salute del cervello.
Una caratteristica tipica della malattia di Alzheimer sono i depositi di proteine che disturbano la comunicazione tra i neuroni e ne causano la morte. Uno di questi depositi è dovuto a un ripiegamento anomalo della proteina tau. Grazie a un nuovo progetto di ricerca, sostenuto dalla Fondazione Synapsis, intende scoprire se sia possibile prevedere con anticipo l’insorgenza di una taupatia. Come intende procedere?
L’accumulo di depositi proteici porta effettivamente a numerosi disturbi funzionali dei neuroni e, a lungo andare, alla loro morte. Nel 2020 abbiamo dimostrato che anche gli astrociti, un tipo di cellule molto diffuso nel cervello, sono colpiti dai depositi di tau, addirittura molto prima di quanto avessimo inizialmente ipotizzato. Questo lavoro di ricerca era stato finanziato dalla Fondazione Synapsis. Nel cervello, gli astrociti svolgono molte funzioni, tra le quali anche la secrezione di minuscole vescicole, dette esosomi. Gli esosomi sono piccoli veicoli trasportatori che contengono molecole come acidi nucleici e proteine. Sono utilizzati per la comunicazione tra le cellule e il loro ambiente circostante, e possono anche passare nel sangue. Il nostro attuale progetto mira a isolare questi esosomi nello stadio precoce della patologia. Poi intendiamo appurare se contengano dei biomarcatori in grado di indicare uno stadio precoce dei depositi di tau nel cervello.
Quali vantaggi pratici si aspetta dalla sua ricerca?
I vantaggi pratici delle nostre ricerche potrebbero risultare significativi sia per la diagnosi, sia per il monitoraggio della terapia. Attualmente, la ricerca sui biomarcatori si concentra sulla misurazione di diverse proteine del sangue. Sebbene questo approccio sia promettente, è improbabile che la misurazione di due o tre proteine del sangue sia sufficiente per rilevare l’ampio spettro di patologie demenziali e di disturbi psichiatrici. Noi perseguiamo un approccio fortemente personalizzato, e l’utilizzo di questi cosiddetti esosomi come biomarcatori potrebbe rapidamente diventare uno strumento diagnostico clinicamente utile per aiutare i medici a perfezionare le diagnosi o a meglio sorvegliare i trattamenti.